martedì 18 dicembre 2012

Tutti buoni a salire in cattedra


La caterva di trombati al concorsone mi fa pensare che finalmente fosse una cosa seria. E i commenti dei trombati, tra il livoroso e l'esterrefatto, circa l'inconcepibile difficoltà dei quesiti, mi fanno pensare che forse stavolta ho ragione.
 
Capisco che l'indovinello con Pamela, Fiona e Gina che prendono il sole a New York in costume da bagno può sembrare effettivamente fuori luogo. Specie se ti lascia con l'interrogativo in sospeso su chi tromba chi e tradisce chi. E sinceramente ero convinto che il famigerato monopsonio fosse uno strumento per misurare la distanza in Parsec tra Alpha Centauri e Barberino del Mugello. Però, al di là di quanto possano sembrare buffi e arzigogolati, si dà per scontato che chi non è in grado di risolvere questi elementari esercizi di logica (logica, eh: non matematica, non fisica quantistica, non ermeneutica bizantina) non sia nemmeno in grado di insegnare come si avvita una lampadina, e pertanto è consigliabile che faccia altro. Tipo imparare ad avvitare le lampadine, e tentare di farne un business.
 
Sì, è vero, la domanda sul monopsonio l'avrei cannata anche io. Ma se per questo io non saprei nemmeno diagnosticare un acetone ad un bambino obeso che si lamenta tenendosi la pancia davanti ad un vassoio di maritozzi con la panna vuoto per tre quarti. E, difatti, quando ci sarà il concorso da primario al Policlinico Gemelli mi guarderò bene dal candidarmi.
 
«Eh, ma non sono mica la stessa cosa». E invece no. Perché insegnare è una cosa seria. Tanto quanto fare il medico. Insegnare non significa spiegare ai bambini cosa ne pensi di Berlusconi, del signoraggio, delle scie chimiche o delle battaglie di civiltà di "Se non ora quando". Insegnare non vuol dire costringere un'intera classe a tenere il ritmo strascicato del più asino anziché esortarla a star dietro al più secchione, con la scusa che bisogna essere equi e solidali tipo il cacao della Bolivia sugli scaffali della Coop. Insegnare è una missione, a metà strada tra un legionario francese nella jungla della Cayenna e un padre comboniano in Africa. Insegnare è una cosa importante tanto quanto aprire una panza con un bisturi per una laparotomia esplorativa.
 
E solo quando tutte queste wannabe-maestrine dalla penna rossa (uomini o donne che siano, beninteso) se ne saranno finalmente rese conto, allora forse potranno davvero cominciare a lamentarsi di non essere pagate quanto, se non un cardiochirurgo, almeno un medico della mutua.

domenica 16 dicembre 2012

Del perché gli hobbit mi fanno schifo



Cominciamo con il dire che gli hobbit sono imbelli cazzoni brutti, bassi, pelosi e sudici. Sì, anche sudici, perché girano scalzi nella mota e abitano malsani tuguri scavati nel sottosuolo nei quali, non avendo gli hobbit le elevate conoscenze ingegneristiche dei nani, probabilmente le feci vengono accumulate tutte sul fondo della parete meno esposta al sole, assieme alle salme dei defunti (e, almeno fino a quando qualcuno non avrà le prove per confutare la mia tesi, sappiate che è questo ciò che fanno gli hobbit delle proprie deiezioni e dei resti mortali dei propri cari).

Nella Terra di Mezzo gli hobbit occupano il gradino più basso nella scala evolutiva, ancora più in basso degli orchetti. I quali uccidono, depredano e razziano perché anelano al caos, mentre gli hobbit non anelano una beata mazza se non vivere pasciuti e ubriachi alle spalle di tutte le altre razze che invece lottano quotidianamente per difendere quello in cui credono. 

Gli hobbit, in sostanza, sono più inutili degli ausiliari del traffico in un villaggio Amish. 

Nel fantasy gli hobbit ricoprono il ruolo che in alcune pellicole pornografiche con trama è riservato a certi sessantenni pingui e col pene piccolo che durante l'atto sessuale tra l'attore e l'attrice principali se ne restano in un angolo della scena a masturbarsi con inusitato vigore, sudando esageratamente con occhi lubrici e pose imbarazzanti (persino per degli intellettuali come gli spettatori dei porno), per poi accorrere nel momento del climax per contribuire alla consueta lordatura finale della protagonista. La quale, comprensibilmente, fatica a celare un'espressione tra l'inorridito e il derisorio. Oltre all'utilità del tutto marginale, dunque, entrambe le categorie condividono la stessa capacità di farti passare la voglia di vedere come va a finire il film.

Nonostante esistano donne hobbit, le famiglie sono per lo più composte da fratelli, nipoti e zii, tipo Paperopoli. Si riproducono, sì, ma sempre rimpiangendo la fortuna delle amebe che possono evitarsi questa gran scocciatura. Perché mentre un elfo per amore sarebbe disposto a rinunciare alla propria immortalità, un hobbit particolarmente in vena di smancerie al massimo rinuncia a vendere la propria sorella a dei carovanieri di passaggio, o si trattiene dal rubare l'ultimo pasto di un moribondo.

Per tentare di farci abituare a questi esseri orrendi, Tolkien ha adottato lo stesso stratagemma che Canale 5 avrebbe poi ripreso anni dopo nei confronti di Barbara D'Urso: siccome nessun essere umano sano di mente guarderebbe mai un suo programma se ci fosse un'alternativa qualsiasi, ivi compresi documentari in lingua originale sull'elicicoltura in Cecoslovacchia, le hanno ceduto in blocco ogni spazio televisivo a disposizione, in maniera da non lasciare scampo al telespettatore. O al lettore, nel caso di Tolkien.

Parliamoci chiaro: se a trovare l'Anello fosse stato un nano, e non un hobbit incline al rachitismo e alla schizofrenia come Gollum, Il Signore degli Anelli sarebbe stato un gradevole romanzetto di 140 pagine di cui due di azione (quelle in cui i nani fanno un culo così a Sauron vilipendendo i suoi poveri resti con una gara a chi piscia più lontano) e 138 di barzellette sconce ed edificanti aneddoti di guerra, massacri e mineralogia. E tante illustrazioni zeppe di rune, ovviamente.

Invece l'Unico Anello è passato nelle mani di un hobbit dopo l'altro, e sappiamo tutti com'e andata a finire.

Un hobbit non ha ideali, non ha ambizioni, non ha prospettive, non ha fede. Un hobbit vive esclusivamente per usurpare con le proprie maleodoranti natiche le terre da pascolo che altrimenti spetterebbero ai cavalli dei fieri Rohirrim. Vive per ingozzarsi fino a scoppiare, per rintronarsi il cervello di erba come un fattone dei giardinetti ma senza i bonghi, e per bere birra sino a rotolare sotto il tavolo in balia del proprio stesso vomito.

Ma attenzione: dopo aver raggiunto il fondo del proprio boccale un hobbit non rutta mai, perché questo lo renderebbe simpatico e gioviale, e quindi sarebbe un nano. Inoltre, se fosse un nano, sarebbe anche in infaticabile minatore nonché un eccellente scalpellino, oltre che un formidabile guerriero.

Invece un hobbit riuscirebbe a far somigliare a un sergente dei Royal Marines anche un obiettore di coscienza con le infradito e la maglietta di Emergency. Al massimo, ma solo se messo alle strette, un hobbit è in grado di sfoderare Pungolo, una specie di spatola da foie gras con un nomignolo decisamente più adatto a un pene che a una spada.

Un hobbit non suscita ammirazione come un elfo. Un hobbit non fa paura come un orco. Un hobbit non provoca immedesimazione come un umano. Un hobbit non ispira simpatia come un nano. Un hobbit non incute soggezione come un mago. Un hobbit non riesce nemmeno a farti esclamare: «E lui che cazzo c'entra?» come Tom Bombadil. Un hobbit, specie dopo un'attenta e puntuale disamina come quella di cui sopra, suscita esclusivamente conati morali. E talvolta anche quelli veri.

Ecco perché odio profondamente gli hobbit.